i “33 MARTIRI DI CAPISTRELLO”

I DIECI GIORNI PIU’ TRISTI DELLA MIA VITA


Perché i giovani sappiano e gli anziani non dimentichino
Antonio Rosini

Sintesi (1) di quanto è stato da me già pubblicato nei libri Otto Mesi di Ferro e Fuoco” e “Giustizia Negata, nel 1994 e nel 1998.

In quel fine Maggio e inizio Giugno del 1944, a causa degli ultimi massicci bombardamenti aerei, la quasi totalità dei cittadini di Avezzano, che non avevano trovato rifugio nei paesi limitrofi, si rifugiarono in località il Parco. Le famiglie contadine, come la mia , costruirono baracche di tavole, con tetto di tegole, nelle numerose fosse lasciate dalle cave di pietra che erano state aperte per la ricostruzione di Avezzano dopo il terremoto, gli altri cittadini, non dediti all’agricoltura, si rifugiarono nella Grotta di Ciccio Felice, in condizioni igieniche, dentro e fuori la grotta, irraccontabili.
I tedeschi rastrellavano tutti gli uomini validi e il bestiame. Il 2 Giugno, a pochi metri dalla nostra baracca, veniva ucciso Carlo Zaurrini. Questo episodio indusse molti ad andare in montagna, con pecore, vacche, equini, ecc. Mio zio Luigi, reduce della prima guerra mondiale, cercò di dissuadere i fratelli e gli altri dall’andare, perché raggrupparsi era più pericoloso che nascondersi singolarmente, ma non fu ascoltato. Mio padre con 700 lire, che dovevano servire per la nascita di mia sorella, nascoste in una tasca cucita nelle mutande, andò con suo fratello Alfonso, possessore di una vacca. Con loro, nella località dove si riunirono, c’erano anche tre prigionieri dell’Esercito inglese, di nazionalità indiana, di pelle scura.(2) Costoro erano stati nascosti per molti mesi nell’abitazione di Barbara Bisciotti vedova del Rosso, fornaia, nell’attuale via Genova di Avezzano. I militari non furono fucilati e dal campo di prigionia scrissero una lettera per informare dell’accaduto. La lettera purtroppo è andata distrutta per l’incendio del locale che il figlio della Bisciotti, Giuseppe, adoperava anche per la rimessa della sua moto.
Furono giorni di terribile ansia. Tutti temevano per la sorte dei nostri congiunti rifugiatisi in montagna di cui non avevamo nessuna notizia. Gli “anziani” (meno che cinquantenni!), subodoravano quanto poteva essere accaduto, ma non allarmavano, tanto che noi continuavamo la vita normale di quei giorni: mio fratello Giovanni era andato a sfoltire le barbabietole con Giovanni Di Benedetto; mio fratello Ugo, di 12 anni, gironzolando per la campagna, da via Nuova aveva riportato, un po’ sulle spalle, un po’ tirandosela dietro con un fil di ferro, una grossa testa di vacca; io, con mia cugina Caterina, ero andato a piedi a strada 36 di Trasacco ad un mulino ad acqua, a macinare una coppa (11 Kg) di grano. Dovevamo pur mangiare, eravamo 7 figli con mia madre partoriente! Mia sorella Fiorenza accudiva mia madre.
Quel giorno, quando da strada 46 risalii all’Incile, stavano arrivando i liberatori neozelandesi, la gente era fuori, davanti le case, festosa. Notai però che al mio passaggio, le persone che mi conoscevano bene, sommessamente e pietosamente mi indicavano. Intuii allora quello che poteva essere accaduto.
Arrivato alla baracca con mio Zio Luigi, mio fratello Giovanni (16 anni) e mia sorella Fiorenza (18 anni) ci dividemmo i compiti: loro tre si avviarono con altre persone, per lo più donne, oltre il Monte Salviano, io da solo, ovviamente scalzo, come gli altri, mi incamminai verso la montagna di Luco, montagna che conoscevo bene, dove andavamo spesso a raccogliere la legna.
Non molto lontano mi trovai in una valletta, simile ad una conca, con diametro sui cento metri, dove notai la presenza di attrezzi per fare il formaggio. Andai verso sud e chiesi ad un contadino un pò d’acqua ed un pezzo di pane. Tornai al Parco e assistetti ad una scena sconvolgente che ancora, dopo ormai tanti anni, mi rimane impressa. Le persone che scendevano avevano trovato i morti. Dal piano la montagna che si innalza per circa 300 metri appariva lussureggiante, i vari colori si riflettevano su una base verde dominante. Le vesti di tanti colori delle decine di persone che scendevano contribuivano a formare un singolare quadro “arcobaleno”: tutto ciò strideva violentemente con il pianto ed i singhiozzi strazianti che rimbombavano nel piano e ai quali si univano quelli delle persone in attesa.
Ormai sapevamo, della strage. Dovemmo quindi provvedere alle gravose e dolorose incombenze pratiche non senza preoccuparci anche di confortare il dolore delle persone che ci stavano accanto: mia madre, mio Zio che aveva perso due fratelli, le mie cugine che non avevano fratelli. Riandammo tutti nella fossa di Capistrello. Stavano Tutti nella buca, meno Giacomo Cerasani, trent’anni, che era fuggito e fu freddato proprio davanti alla porta della Stazione, dal lato dei binari, dove giaceva bocconi. Tutti furono uccisi con il colpo alla nuca (3).
Si procedette a togliere le salme dalla fossa, che venivano distese nei dintorni, coperte con le frasche dei pioppi della strada Nazionale, strappate da Domenico Forsinetti, classe 1923, che aveva perso nella fossa il fratello di 13 anni e lo zio di 40.
Mio padre fu subito individuato per la fibbia della cinta dei pantaloni e per l’allacciatura delle scarpe (Foto 1). Lo spettacolo era orripilante, erano già trascorsi 5 giorni dall’uccisione e, dopo aver tolto i primi corpi, ci si trovò di fronte a salme in parte decomposte e la fossa era diventata una pozza di sangue, di acqua e di carne umana.
La salma di Tiburzi Giovanni, che con poche precauzioni fu trasportata a spalla con una barella di fortuna dal fratello Luigi e da altra persona, forse fu la causa dell’infezione che provocò la morte dello stesso Luigi di lì a poco.
Nel frattempo, mentre io aiutavo a fare le frasche e con altri rimanevo di “guardia” ai morti, mio zio Luigi e mio fratello Giovanni con il nostro carretto andavano ad Avezzano, dove, nelle case bombardate di via Marruvio, si procurarono le tavole per fare due bare; mentre mia sorella andava al Cimitero di Avezzano per scavare due fosse.
Tornati mio zio e mio fratello, anch’io raggiunsi mia sorella al Cimitero, dove, nonostante il mio apporto, non riuscimmo a scavare granché perché il terreno era molto duro. Fummo soccorsi da un giovanotto generoso, Pasquale di Nunzio, che ci sostituì e con grande energia scavò la fossa.
Il giorno dopo nella località Parco non era rimasto nessuno, solo la nostra famiglia, perché nel frattempo era nata mia sorella, l’ottava figlia dei miei genitori.
Furono poi un fratello di mia madre, zio Amedeo, e altri volenterosi da Corcumello a smontare la baracca e a ricostruirla nel nostro sito di Avezzano, consentendoci di tornare in città.
La strage colpì tutta la popolazione e il Parroco della Parrocchia di S. Giovanni di Avezzano, Don Giovanni Valente (Foto 2), il rione della maggior parte delle vittime, indicò nel suo testamento di voler essere seppellito nella tomba dei martiri di Capistrello nel Cimitero di Avezzano (4) .
Per l’eccidio di Capistrello, le autorità giudiziarie italiane non hanno voluto indagare. Il sottoscritto, insieme al Sindaco di Capistrello Marcello Venditti (Foto 3), il 23 dicembre 1993 (5), si è recato a Monaco di Baviera ad incontrare un ex caporale, nel frattempo fattosi prete cattolico (Foto 4). Poi, con un secondo viaggio in Germania a Colonia, ho incontrato, fotografato e interrogato un altro Ufficiale tedesco (Foto 5). Successivamente ho rintracciato in Canada un ex stalliere del comando tedesco in Capistrello.
Per provocare una serie indagine mi sono autoquerelato, ho avuto corrispondenza con varie Procure della Repubblica Federale Tedesca, ho fornito una quantità enorme di notizie alle autorità giudiziarie italiane e tedesche ma non si è ottenuto niente: tutti i possibili colpevoli da me segnalati sono andati ad interrogarli dopo la loro morte. L’unico, all’epoca in vita, il prete di Monaco, non è stato mai interrogato.
In data 25 gennaio 2001, La Procura Militare di Roma (Foto 6) ha concluso l’inchiesta con “archiviazione provvisoria”. La verità è che non si è voluto fare quanto era possibile e necessario per scoprire la verità e punire gli eventuali colpevoli.

Bibliografia

(1) “Otto mesi di Ferro e Fuoco”, pag. 122;
(2) “Giustizia Negata”, pag. 26 e 27;
(3)Le ossa ed i teschi sono conservati in cassette di zinco nel sacrario dei Martiri nel Cimitero di Avezzano e furono fotografati da Guido Tacconella, Corso G. Marconi - Avezzano,vedi anche “Giustizia Negata”pag 167;
(4) “Otto mesi di Ferro e Fuoco”, pag. 171;
(5) “Giustizia.Negata”, pagg. 21 e 183.

Foto
(1) Scarpa di Loreto Rosini
(2) Foto Don Giovanni Valente
(3) Antonio Rosini ed il Sindaco di Capistrello Marcello Venditti a Monaco di Baviera
(4) Prete di Monaco di Baviera, ex caporale tedesco
(5) Tenente Tedesco, interrogato da Rosini
(6) Procura Militare di Roma: Antonio Rosini, il sindaco di Luco Orante Venti, l’assessore di Canistro Mambrino Persia, l’Avv. Domenico Buccini, l’Avv. Giancarlo Cantelmi